18/11/2011 09:30 Sala Costantinides - via Papa Giovanni XXIII n.1 - Trieste
Italiani a Trieste
Roberto Finzi, Giorgio Negrelli, Anna Millo, Anna Vinci, Diego d'Amelio, Patrick Karlsen
Monica rebeschini, Ivan Verc
IL PICCOLO - 16 DICEMBRE 2011
Trieste, dove la lingua italiana era questione di buoni affari
Domani e venerdì un convegno si interroga sull'italianità nella città giuliana dal XIX secolo
al secondo dopoguerra, tra nazionalismo e irredentismo gli interventi Storici ed esperti
alla Sala Costantinides tavola rotonda Un confronto su "L'identità come problema culturale"
L'Associazione Norberto Bobbio di Pordenone e il Laboratorio democratico Bruno Pincherle
di Trieste organizzano il convegno "Italiani a Trieste" che si terrà domani (inizio alle 16)
e venerdì a Trieste nella Sala Costantinides del Civico Museo Sartorio. Il convegno si svolge
nel quadro delle celebrazioni per il 150.o dell'Unità d'Italia, in collaborazione con l'Istituto regionale
per la Storia del Movimento di Liberazione e con il sostegno della Fondazione CRTrieste.
I lavori hanno lo scopo di approfondire il tema di che cosa abbia significato essere
italiani a Trieste dal secolo XIX al secondo dopoguerra.
Partecipano Roberto Finzi, dell' Università di Bologna, Giorgio Negrelli, Anna Millo, Anna Vinci,
Diego D'Amelio, Patrick Karlsen, Monica Rebeschini,. A conclusione dei lavori, venerdì, si terrà
una tavolta rotodna dal titolo "L'identità come problema culturale". Introduce Ivan Verc.
Pubblichiamo uno stralcio dell'intervento di Roberto Finzi al convegno "Italiani a Trieste",
dal titolo "Italia-Trieste: un rapporto difficile". di ROBERTO FINZI Come è del tutto ovvio, il
tema propostomi e che, un po' avventurosamente, ho accettato di trattare troverà - per chi seguirà
i lavori del convegno che ha appena preso avvio - solo alla fine delle nostre fatiche non dirò una
risposta ma almeno sufficienti elementi analitici per orientarsi sull'argomento proposto dagli
organizzatori. Per parte mia tenterò solo di prospettare alcuni spunti di riflessione, conscio
della loro assoluta parzialità, sia nel senso dell'incompletezza sia - inevitabilmente -
in quello dell'ottica e dunque del giudizio. La percezione di Trieste come realtà il cui
volto è essenzialmente "italiano" è precoce, almeno del periodo giuseppino.
Quando l'imperatore
dispone l'uso del tedesco negli atti pubblici la Borsa triestina, l'organismo che
raggruppa l'élite mercantile della città, si oppone. " Tutta la Popolazione di Trieste -
obietta nel 1789 al governo - eccettuati alcuni artefici, ed alcuni Impiegati ufficianti,
è Italiana, o posseditrice della Lingua Italiana; giacché e li Greci, e li Armeni e
gli Ebrei la coltivarono. Codesti Negozianti Forestieri si vennero a Domiciliare in
Trieste qual Porto Franco in età già matura […]è impossibile che[…]si diano la pena
di apprendere questa Lingua , ed è più impossibile ancora che si addattino a trattare
gli affari in Lingua per essi sì difficile e sconosciuta". Dall'istituzione del porto
franco in avanti Trieste è un universo in cui sono confluite genti da diversi punti dei
mondi italiano, mediterraneo, della Europa continentale. Vi giungono in cerca di fortuna;
perché attratte dai lavori pubblici messi in opera dal governo; per fruire dell'immunità
garantita a chi, pur avendo pendenze giudiziarie all'estero, non avesse commesso
reati nei domini imperiali, per cui - scriverà nel 1785 il più notevole intellettuale
triestino dell'epoca, Antonio De Giuliani - la città ha "una popolazione composta
di varie Nazioni, ed in parte di banditi, di micidiarj, e bisognosi stranieri";
per sopperire alla mancanza di marinai che caratterizza Trieste. E via dicendo.
Dunque non stupisce che affrontando la storia di Trieste sia stato scritto:
"si parlerà non di una sola Trieste, ma di tante e diverse Trieste".
Che scelgono la lingua italiana - meglio una variante della variante veneta
dell'italiano - per motivi essenzialmente storico-economici, vale a dire materiali.
Intanto flussi migratori di notevole entità da terre italofone - vicine e meno
vicine - indotti da occasioni di lavoro e dalla prospettiva di lucrose imprese
commerciali, ma indubbiamente facilitati dalla circostanza di volgersi verso una
città - quella dei "triestini originarj" - d'area linguistica neolatina.
Poi il fatto che l'italiano - specie nella variante veneta - ben "si sposava"
con la "lingua franca"(erroneamente identificata tout court col veneto),
strumento con il quale si poteva comunicare nei porti del Levante e in genere
del Mediterraneo ma anche bagaglio linguistico di cui erano forniti gli
immigranti da terre non italofone, che favoriva e la comunicazione iniziale
e poi un compiuto apprendimento dell'italiano. Una lingua, quest'ultima,
a sua volta, spendibile con certa facilità non solo sulle sponde italiana
e slavo-veneta dell'Adriatico ma pure in un Mediterraneo la cui parte
occidentale lambisce per larga parte terre abitate da popoli neolatini.
Il documento della borsa del 1789 cui ci si è più sopra riferiti vi allude.
In duplice modo: laddove sostiene che i mercanti greci, ebrei e armeni
che approdano per affari a Trieste "sono istruiti per ragione del loro
commercio nella lingua italiana; laddove, ancora, sottolinea la
"origine commune" di italiano, francese e spagnolo in contrapposizione
al tedesco che con le lingue neolatine non ha "alcuna analogia".
Infine, il ruolo internazionale, ancora nel Settecento, dell'italiano
come lingua culturale e, nella variante veneta, il suo essere strumento
di comunicazione di una realtà economico-statuale, certo decaduta,
ma ancora per molti, specie nel Centro e nell'Est del continente,
attrattiva permetteva al ceto mercantile italoparlante di entrare
in comunicazione con una parte non irrilevante dell'aristocrazia
imperiale e mitteleuropea. A metà Settecento nello stesso centro
dell'impero - è stato scritto - "l'élite aristocratica viennese
parlava italiano e francese e scriveva un tedesco imbastardito
dall'inclusione di termini stranieri".
Né va, ovviamente, dimenticato, come ricorda Elio Apih,
il "continuo commercio con l'Italia", i notevoli e costanti
flussi mercantili da e verso la penisola incoraggiati anche
dal "germanizzatore" Giuseppe II. Non c'è - né poteva esserci
- alcun richiamo al passato, a tradizioni.
La forza di Trieste - "la Filadelfia d'Europa" meta dei "pionieri
del nostro vecchio continente" scriveva, al sorgere del secolo XIX,
al fratello un nobile francese, fattosi mercante e stabilitosi
nella città di San Giusto - rispetto a Venezia, sostiene nel
1857 Karl Marx sulla "New York Daily Tribune", sta nell'"essere
come gli Stati Uniti" e cioè di "non possedere passato alcuno:
Fondata da una società composta e formata da operatori economici
e da speculatori di diversa estrazione […]Trieste non era gravata
da tradizioni La prosperità di Trieste non conosce confini, tranne
quello di dipendere dallo sviluppo delle categorie produttive e, per
i mezzi di trasporto, dal potente sistema che governa i paesi che si
trovano oggi sotto il dominio austriaco". (...) Prodotta da corpose
cause materiali la opzione dell'italiano ha nel tempo decisivi
effetti identitari ma non determina conseguenze politiche in senso -
se così posso esprimermi - "risorgimentale" che col tempo e in un tempo non breve.