Il 'secolo americano' in Italia tra mito e demitizzazione
di Salvatore Di Pasqua
In questo mio intervento introduttivo non mi soffermerò sull'espressione "secolo americano",
non cercherò in qualche modo di attribuirne la paternità, nè di sottolinearne le implicazioni
storiografiche.
Proverò invece ad offrire qualche spunto di riflessione, evidentemente molto frammentato, sulla
percezione che si è avuta dell'America in alcuni frangenti del Novecento, in particolare in Italia.
Per iniziare vi mostrerò un breve filmato.
Quelle che avete appena visto sono le immagini della liberazione di Roma dal nazifascismo nel
giugno 1944. Dopo che gli alleati avevano superato la linea Gustav, i tedeschi avevano
abbandonato Roma attestandosi più a Nord sulla linea gotica. Così le truppe americane, guidate
dal generale Clark, poterono entrare trionfalmente a Roma senza incontrare resistenza tra lo
sventolio di bandiere a stelle e strisce, accanto a quelle italiane, e l'accoglienza festosa
della popolazione.
Si tratta di immagini di repertorio che chi, come me, ha qualche annetto più di voi ha già
visto altre volte. Queste immagini in un certo senso sono scolpite nel nostro immaginario e
assumono un significato che va al di là dell'avvenimento storico. Nel giugno 1944 la seconda
guerra mondiale non era affatto finita, ma queste immagini vengono percepite come fine della
guerra, come rispecchiamento della liberazione di tutta quanta l'Italia dall'occupazione nazifascista.
E questo poteva avvenire grazie agli americani: l'abbraccio della donna al soldato che vedete nel
fotogramma è l'abbraccio di una nazione a un'altra nazione che l'ha aiutata a sconfiggere un
nemico.
A ben vedere le immagini che abbiamo visto sono già una narrazione storica: per la loro forte
carica emotiva esse ci spingono ad andare al di là del fatto, dell'evento realmente accaduto,
mettendo in ombra, com'è inevitabile, altri elementi storici che pur hanno concorso a quella
liberazione: innanzitutto il ruolo dei partigiani, l'apporto dei comitati di liberazione nazionale,
la percezione dunque di questa fase della guerra anche come resistenza degli italiani.
Quel che voglio sottolineare è che le immagini, soprattutto se slegate dal loro contesto e
reiterate, si sedimentano nella memoria e trasformano il fatto storico in mito: in questo
caso contribuiscono ad alimentare il mito americano.
Accanto a questa lettura dell'America che ci libera dal nazifascismo e ci restituisce la nostra
integrità territoriale, si può cogliere nel filmato un ulteriore livello di comunicazione legato
non alle immagini ma al suono.
Le note che avete ascoltato sono quelle di uno dei brani più celebri interpretati dal
compositore statunitense Glenn Miller: In the mood, che potremmo tradurre "in vena".
E la musica che accompagna le immagini della liberazione di Roma era proprio un'iniezione
in vena di umore, entusiasmo, spensieratezza, "voglia di vivere". Essa evoca dunque un'altra
liberazione: la liberazione dalla retorica stereotipata e cupa della mitografia fascista.
Il corpo degli italiani poteva finalmente liberarsi dalle camicie nere, dalle prescrizioni
minute, dai rituali soffocanti per lasciarsi andare a ritmi e movenze più spontanei; le nuove
sonorità introdotte in Italia con l'arrivo degli americani (Jazz, blues, swing) segnano una
netta distanza non solo dalla monotonia degli inni fascisti, ma anche dalla nostra tradizione
melodica più pura. Dalla diffusione di questi ritmi negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento
traspare, evidente, una "Voglia d'America", una voglia d'America che un ristretto gruppo di letterati
italiani aveva già anticipato negli anni Trenta. Scrittori come Cesare Pavese ed Elio Vittorini,
proprio negli anni più bui del totalitarismo fascista, scoprono un nuovo mondo nelle pagine della
letteratura americana, trovando in essa quella sincerità, quella crudezza, quell'assenza di
ampollosità che mancavano nella letteratura italiana di regime.
Ecco come si esprime Pavese in un articolo pubblicato nel 1947 sul quotidiano «l'Unità»:
«Verso il 1930, quando il fascismo cominciava ad essere la 'speranza del mondo', accadde
ad alcuni giovani italiani di scoprire nei libri l'America, un'America pensosa e barbarica, felice
e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente.
Per qualche anno questi giovani lessero, tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta
che indignò la cultura ufficiale, ma il successo fu tanto che costrinse il regime a tollerare per
salvare la faccia.[...] Il sapore di scandalo e di facile eresia che avvolgeva i nuovi libri e i loro
argomenti, il furore di rivolta e di sincerità che anche i più sventati sentivano pulsare in quelle
pagine tradotte, riuscirono irresistibili a un pubblico non ancora del tutto intontito dal conformismo
e dall'accademia. [...] Per molta gente l'incontro con Caldwell, Steinbeck, Saroyan, e persino col
vecchio Lewis, aperse il primo spiraglio di libertà, il primo sospetto che non tutto della cultura
del mondo finisse con i fasci. [...] Ci si accorse, durante quegli anni di studio, che l'America non
era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigantesco teatro dove con maggiore
franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti» (Pavese 1968, pp. 173-174).